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176 CAPITOLO QUARTO

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Passi dietro a lei: Alberti e la Lúzia, con un catino e una spugna.

Massimo, quando Lelia lo vide, si era già composto un contegno d’indifferenza serena e cortese. Aveva fatto il possibile per pacificare gli animi, aveva cercato di scolpare l’arciprete, di scolpare il Vescovo, ai quali delle persone maligne avevano certo riferito chi sa cosa. Ripetè su tutti i toni che giurando di non andare più in chiesa non solo avrebbero recato a don Aurelio un dolore mortale, ma gli avrebbero anche nociuto presso i Superiori. Infatti i Superiori avrebbero detto: che razza di religione insegnava questo curato? E poi aveva parlato del Sacramento, al quale si doveva più amore e più rispetto che a un prete qualsiasi. Non era riuscito a persuadere, ma si sentiva pago, nella sua coscienza, di essersi levato sopra risentimenti e rancori, come si sarebbe levato don Aurelio. E da questa elevazione gli veniva una serenità grande a fronte di Lelia. Si sentiva più alto di lei, dei suoi giudizi ingiuriosi, più fermo nel nuovo proposito di considerare il suo periodo di amore come un periodo di debolezza, di soffocare un sentimento che non si accordava colla sua dignità, di serbarsi per un’altra donna, più affine a lui di pensiero e di cuore.

«Buon giorno, signorina» diss’egli, sorridendo. «Non ho ottenuto quel che volevo colle parole, vedrò se la cosa mi riesce meglio colla spugna.»

E si mise a strofinare gagliardamente la scritta. Lelia, pallidissima, gli domandò come se non sapesse nulla di nulla, chi avesse scritto così. Massimo depose la spugna nel catino, raccontò il fatto, tranquillamente. In principio Lelia pensò che donna Fedele non gli avesse riferito il loro colloquio, ma poi quei suo fare sciolto le parve troppo diverso dal solito, poco naturale. Intanto un contadino sopraggiunto dal Maso, visto il catino,

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