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8 | CAPITOLO PRIMO |
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Lelia scattò. «Non chiamarmi!» diss’ella, e corse via per l’uscio che mette alla scala di servizio, salì adagio adagio, sostando spesso a tender l’orecchio, nella sua camera. Si affacciò alla finestra. Nessun passo, nessuna voce. Pensò, malcontenta di sé: «che me ne importa?». E, lasciata la finestra, rilesse la lettera sgualcita che si era stretta nel pugno alla chiamata di Giovanni. La rilesse corrugando le sopracciglia, levandone talvolta gli occhi, due occhi singolari, d’indefinibile colore, a guardar fieramente qualche proiezione del suo pensiero nell’aria. Poi se la strinse ancora in pugno, la gittò a terra.
In quel momento entrò dalla finestra aperta un suono di voci lontane. Lelia trasalì, porse il viso, ascoltando. Le voci venivano dal basso, dal fondo del giardino, dove, presso la chiesina di Santa Maria ad Montes, è l’entrata dei pedoni. E subito le sopracciglia bionde si corrugarono ancora, il piccolo viso capriccioso riprese una espressione indicibile di fierezza altera. Ella si alzò, raccattò la lettera e chiuse la finestra. Che le poteva importare di questo Alberti?
Non era né figlia né congiunta del signor Marcello. Era il fiore puro di uno stelo amaro, spuntato fra la putredine. Il figlio unico dei Trento, il povero Andrea, l’aveva amata quasi bambina, voleva farla sua sposa. Morto lui, i suoi genitori, che gli avevano sempre contrastato risolutamente questo matrimonio, si erano presa in casa Lelia, comperandola, si può dire, a denari, perché la fanciulla, statagli così cara, fosse preservata dalle corruzioni del mondo; e anche per un rimorso, non della coscienza ma dell’amore, per il dolore di aver fatto soffrire il loro diletto.
Fin da giovinetta ell’aveva conosciuto i suoi a fondo, sopra tutto sua madre, con acume precoce, per l’esperienza di se stessa, delle tendenze che sentiva nel suo proprio sangue, avvertite a dodici anni, quando la vita,