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NELLA TORRE DELL'ORGOGLIO 205

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:217|3|0]]fiacco, un timido, uno che non sapeva sciogliersi dalle pastoie della tradizione nè far fronte alla tirannia esercitata sulle coscienze, un giovine vecchio, rimasto indietro di vent’anni, non proprio un clericale ma poco diverso da un clericale; e ne ridevano.

La società elegante, scettica, era male disposta verso di lui. Le donne, salvo poche eccezioni, gli erano ancora più contrarie che gli uomini. Gli uomini lo giudicavano un indeciso, una mediocrità da mezzi termini. Le donne, anche talune di quelle che andavano a messa, avrebbero voluto che in tutto esaltasse i ribelli o in tutto li condannasse. Lo accusavano di farisaismo e di viltà. L’amico scriveva di essersi trovato solo a difenderlo, una sera, in certa casa patrizia, contro la Dea Maggiore e la Dea Minore del luogo, madre e figlia, accanite, invelenite sue accusatrici. Scriveva di averlo difeso ma non era chiaro se il difensore fosse ben convinto delle proprie tesi, o no. Pareva piuttosto che lo fosse a mezzo, pareva che ostentasse troppo il suo zelo, che volesse troppo evidentemente farsene un merito.

Niente di tutto ciò poteva riuscire nuovo a Massimo che appunto aveva lasciato Milano durante la tempesta; ma poichè gli pareva di esserne stato lontano un secolo, non si aspettava davvero di ritrovarvela tanto grossa. Al posto suo, don Aurelio avrebbe mansuetamente pregato per i maligni offensori, si sarebbe consolato colle parole dell’Imitazione: «Quid sunt verba nisi verba?». Massimo, che non era un tal santo, discese invece, a ristoro, in una sua interna onda saliente di orgoglio, si consolò erigendosi nel segreto del cuore, con tacito disprezzo, su tutte le plebi, sulla plebe clericale fanatica, sulla plebe modernista presuntuosa, malsicura di quel che pensa, di quel che vuole, sulla plebe dei salotti aristocratici, delle donnine inverniciate di cultura o anche gregge, che si arrogavano di sentenziare per dritto e

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