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210 | CAPITOLO SESTO |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:222|3|0]]«Mi vede qui.» Don Aurelio tacque, addolorato. Poi gli domandò sottovoce se non andasse al funerale. «No» rispose il giovine. «Scrivo. Anzi ho scritto. Vuol leggere?» E gli porse la lettera. Don Aurelio lesse, durò a guardare lo scritto dopo averlo letto.
«Va bene» disse finalmente, «ma capisco che tu abbia scritto affetto, non capisco che abbia scritto anche stima.
«E la parola che ci vuole» rispose Massimo. «Lo creda pure»
Don Aurelio gli restituì, sospirando, la lettera, non chiese spiegazioni che sarebbero state, lo indovinava, penose. E raccontò la visita fatta all’Arcivescovo cui aveva recato una lettera di presentazione del Vescovo di Vicenza. Sua Eminenza lo aveva accolto con molta bontà, gli aveva promesso di accettarlo nella sua diocesi. Certo un po’ di tempo, per metterlo a posto, ci voleva. Intanto, perchè potesse guadagnarsi un pane, gli si potevano cercare delle ripetizioni. Si avvicinava l’autunno, c’erano gli esami di ottobre, il momento era buono. Gli consigliò finalmente di vivere a sè, con grande prudenza. Disse questo paternamente e paternamente anche sorrise dei preti di Velo d’Astico. - Me li immagino; buona gente, brava gente, ma che vede eretici dappertutto. Conosco un prete ch’è venuto a denunciarmi come eretico un collega che abborre tanto il vino da condire l’insalata col limone invece che coll’aceto. - Don Aurelio era molto contento. E i suoi libri? Cosa ne succederebbe, ora? Massimo lo rassicurò. Donna Fedele avrebbe pensato a tutto. Egli era curioso di sapere cos’avesse detto di lui l’amico di don Aurelio quando si erano incontrati sulla scala.
«Ho visto» diss’egli «la faccia che ha fatto!»
Don Aurelio sorrise.
«Mi ha detto molto male di te, ma in buona fede,