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228 CAPITOLO SETTIMO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:240|3|0]]potuto. Passò la intera giornata a letto, con una emicrania violenta. Andai io. Il padre c’era.»

«Che uomo è?» interruppe Massimo.

Ella ebbe un’esclamazione di ribrezzo.

«Ah! Schifoso, all’aspetto. Si figuri una testa di cera da parrucchiere, vecchia, mal dipinta, sporca. Parla come uno stupido, duro duro. Si direbbe paralizzato dalla soggezione. Di me, almeno, ha mostrato una gran soggezione. Dice sempre di sì a tutto, pare incapace di dire di no. Se non si sapesse ch’è un volpone, lo si crederebbe un cretino. Dopo il funerale è venuto a farmi visita: “a far un dovare, un dovare". Pronuncia così. Domandò se si potesse vedere Lelia, come lo avrebbe domandato un fattore e non un padre. Ella non volle saperne e lui “povareta, povareta” se ne andò contento egualmente. Un tipo unico. Stamattina mi mandò un biglietto per farmi sapere che partiva coll’agente, che sarebbe stato fuori tre o quattro giorni e che sperava, ritornando, di trovare Lelia alla Montanina. Ma Lelia...»

Donna Fedele pronunciò queste due ultime parole piano piano e tacque, segnando lentamente nell’erba segni enigmatici colla punta dell'ombrellino. Aspettava una domanda che non venne.

«Lelia mi dà un gran pensiero» diss’ella, ancora sottovoce, ancora segnando geroglifici nell’erba, «e vorrei un consiglio, vorrei avere qui don Aurelio, domandarlo a lui.»

Massimo prese a parlarle di don Aurelio, delle sue condizioni presenti, delle sue speranze. In altri momenti donna Fedele lo avrebbe ascoltato avidamente, gli avrebbe fatte mille domande. Adesso lo ascoltò malvolontieri, sentendolo renitente a parlare di Lelia.

«Dovrebbe domandarglielo Lei, per me» diss’ella.

Massimo rispose freddamente, che, se lo desiderava lo avrebbe fatto.

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