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240 | CAPITOLO SETTIMO |
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III.
Dormiva infatti quando, mezz’ora dopo, venne la cameriera per annunciarle ch’era servito il pranzo. Domandò se la signorina Lelia fosse stata avvertita. La signorina stava già abbasso. Donna Fedele fu tentata di non scendere, tanto si sentiva ancora spossata e tanto le ripugnava di prender cibo. Fece uno sforzo e discese. Il pranzo era apparecchiato nella veranda, sulla fronte del villino. Lelia pareva tanto serena che donna Fedele, consolata, le parlò della visita di Massimo, delle notizie di don Aurelio. E si aperse, parlando di don Aurelio, sulle sue necessità spirituali, disse quanto sentiva la mancanza di quella parola savia e mansueta.
«Perchè sono cattiva, sai» diss’ella, «avrei bisogno di essere più mite, più caritatevole verso i preti che non somigliano a lui.»
Lelia lasciò cadere il discorso. Parlò, invece, del piccolo cimitero, dove non era stata mai. Aveva pensato di recarvisi l’indomani mattina. Sperava che ci potesse venire anche l’amica. Porterebbero con sè delle rose, tante rose. Avrebbe desiderato delle rose bianche ma in quel momento il villino dal nome grazioso non aveva che poche rose rosse. Parlarono di rose. Donna Fedele non era contenta delle sue. Le pareva che il villino meritasse allora di venir chiamato dalle spine. Bisognava mettervi molti rosai di più. Il villino doveva parere posato sopra un canestro colmo di rose, esser fasciato di rose fino al tetto.
«Faremo una corsa a Milano» diss’ella, «andremo da tutti quei floricultori, sceglieremo il buono e il meglio. Vuoi?»