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14 CAPITOLO PRIMO

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II.


Massimo Alberti, arrivato da Milano dopo un viaggio di quasi ott’ore nel caldo di un giugno ardente, nella polvere, nel fumo, nello strepito, credeva, salendo a piedi dalla stazione di Arsiero alla Montanina, sognare. Il cielo, senza luna, era coperto; grandi fumate di nebbia pesavano, biancastre, sulla fronte della Priaforà, sulle scogliere del Summano, aguzze nel cielo come una sega adagiata sopra le morbide vette delle boscaglie; la brezzolina del monte spandeva sull’erta sentori selvaggi, molte voci di acquicelle cascanti nei cavi dei burroni e non una sola nota di vita umana. La strada odorava di fango; piacevolmente, dopo tanta polvere. Dove essa svolta dentro un vallone e tutto si discopre, nell’alto, l’ammasso lunato di castagni, che porta un diadema nero di vette d’abeti, il contadino di Lago di Velo, certo Simone, detto Cioci, che precedeva Massimo con le valigie, si fermò per domandargli se andasse a Velo, o a Sant’Ubaldo, o alla Montanina.

«Ma come?» fece Massimo, sorpreso. «Vado da don Aurelio, a Sant’Ubaldo.»

Allora quella testa fine che alla Stazione gli aveva solamente fatte le scuse di don Aurelio rimasto a Lago per assistere un vecchio infermo, gli disse tranquillamente:

«Perchè nol ga posto, salo, el prete.»

Massimo restò sbalordito. Come, non aveva posto? Se gli aveva scritto di una camera preparata per lui? Cioci gli spiegò la cosa a suo modo:

«Per via de Carnesecca, salo».

Peggio che peggio. Carnesecca? Cos’era Carnesecca?

«Per via ch’el se l’à tolto in casa, salo.»

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