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258 | CAPITOLO OTTAVO |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:270|3|0]]poco del modernista e molto del giovine. Un matrimonio di Lelia avrebbe facilmente mandate a male le sue speranze maggiori. Egli trovò modo d’informare la signora Camin, che faceva dire molte messe a Sant’Antonio e mandava da Milano quattrini a sacerdoti di Padova per opere di pietà e di beneficenza. La sera stessa che morì il signor Marcello, l’arciprete scrisse a Molesin che quel famoso modernista era fuggito, e che forse certe notizie poco edificanti sul suo conto, venute da Milano, avevano condotto a questa soddisfacente soluzione. Poi l’astuto dottore sollecitò, senza troppi complimenti, dal padre dell’erede, un invito alla Montanina. L’invito fu fatto immediatamente secondo lo stile del sior Momi: «certo certo, sipo, un piacere, aho aho».
E lì su due piedi, in casa Camin, presente la Carolina che il suo padrone era venuto a prendere, fu combinato il viaggetto per l’indomani mattina. Quella notte l’onesto dottore dormì poco. Sapeva di andar a giuocare una partita d’impegno col «macaco», un avversario sopraffino. Non lo stimava però suo pari. Ne conosceva una tara. Lo definiva da mercante di cavalli: «fin, ma debole de zenoci». Molesin disprezzava ogni debolezza per le donne. Lì peccavano, secondo lui, i «zenoci» del sior Momi; il quale, altrimenti, col gran dono fattogli dal Signore di quella faccia da cretino, non avrebbe avuto eguali. «Se no ghe fosse la doneta, oooh! Ma ghe xe la doneta.»
Il non avere ancora veduto Lelia, nè udito chiederne da suo padre, lo turbò un poco. Ne chiese a Giovanni salendo con lui alla camera destinatagli: «la signorina?». Giovanni rispose: «è fuori» e Molesin credette che fosse a passeggio. Scendendo per il caffè e latte, in-