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280 CAPITOLO NONO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:292|3|0]]scenza che, a parlarne, si riaccendeva. Dall’altro letto nessun segno di vita. Ella domandò:

«Ti stanco?»

Il «no» che venne stavolta non era nè flebile nè triste. Era un no sommesso, breve, tronco; un no avido, quasi.

«Il più doloroso viene adesso» riprese la narratrice. «Quando mio padre morì, avevo ventisette anni. Vivevo a Torino con una dama di compagnia che mio padre mi aveva presa perchè mi accompagnasse in società e mi aiutasse a ricevere. Vedevo molta gente. Fui amata da un ufficiale più giovine di me, povero, di molto ingegno, di molto valore morale. Mi era simpatico, ho creduto di poterlo riamare ed ebbi il torto immenso di non sapergli nascondere il mio sentimento. Così lo aiutai a illudersi. Mi domandò di sposarlo e allora, troppo tardi, intesi che potevo avere con lui un legame d’anima, un altro legame no. Gli risposi così. Egli prese congedo senza una parola, andò a casa....»

«Si uccise?» mormorò Lelia.

Donna Fedele non rispose. Si accorse di una piccola mano che strisciava sulla sponda del suo letto, la cercò, la prese, sentì la propria esser tratta verso l’altro letto, essere sfiorata da due labbra calde. Era un premio del grande sforzo che aveva fatto per aprire il suo cuore a quella persona quasi straniera. amata di un affetto riflesso.

«Cara» diss’ella sottovoce. Per qualche momento non fu in grado di riprendere il suo racconto.

«Era figlio unico» proseguì, finalmente. «Aveva la madre e una sorella. Restarono quasi nella miseria. Mi odiarono perchè credevano che io l’avessi prima adescato e poi respinto. Mai non avrebbero accettato soccorsi da me. La madre morì. La sorella vive a Torino, sola. Ti darò il suo indirizzo. Io la soccorro senza ch’essa

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