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292 CAPITOLO DECIMO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:304|3|0]]«Basta, basta, basta!»

Molesin si avviò per la discesa. Fatti due passi, si fermò in isbieco puntando il bastone a terra e guardandosi alle spalle colla coda dell’occhio.

«Femo el settanta» diss’egli.

«Femo el sette» disse Camin.

La conversazione, per quel momento, finì. Nel cervello del sior Momi spuntò la speranza che, modificando i suoi piani, Molesin levasse il campo quella sera stessa. Scesero ambedue in silenzio dai castagni fino alla piccola custodia che copre la sorgente della Riderella.

«Cossa xe quel maledeto baùl?» chiese Molesin con un viso ed un accento di burbero benefico, che fecero subito comprendere al sior Momi come l’avversario, invece di levare il campo, meditasse altre mosse. Avuta la risposta, l’eccellente dottore dichiarò che quell’acqua gli era piaciuta e che intendeva, nel suo breve soggiorno, farne una cura. Il sior Momi non disse niente e battè molto le palpebre mentre la Riderella rideva piano giù fra i sassi e l’erba.


II.



Verso le cinque, Molesin ricevette un biglietto di don Tita. L’arciprete lo pregava di recarsi alla canonica. Molesin vi andò subito e vi fu ricevuto da don Emanuele. L’arciprete era partito per Seghe lasciando libero il campo al suo cappellano, il quale desiderava questo colloquio e non aveva voluto chiederlo direttamente per non mettere sè avanti all’arciprete in un argomento d’interesse spirituale. Gli doleva che il Superiore non avesse fatto valere abbastanza, parlando con Molesin, la necessità morale di strappare a ogni costo la signorina Camin alla influenza funesta della Vayla. L’animo

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