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302 CAPITOLO DECIMO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:314|3|0]]nocchiarlo e leggendogli nel viso come nei modi amabili una maligna fiducia di riuscire, rivolgeva fra sè quali potessero essere le trappole nemiche e come gli convenisse navigare per toccar la meta, costringere Momi a patti ragionevoli. Procedeva nel pensiero verso questa meta, quale di notte procede per acque infide una nave da guerra, che va lenta lenta, colle artiglierie pronte, e saetta in giro le tenebre di occhiate elettriche. La Gorlago partirebbe; sì, n’era persuaso. Partirebbe per finta; questo non importava, purchè partisse. Ma la ragazza? Verrebbe? E poi, si farebbe monaca? Cederebbe, facendosi monaca, tutto il suo al padre, come aveva insinuato don Emanuele? Questioni lontane, pensò il dottor Sottile, e dubbie assai. Venga intanto, madamigella. Poi si vedrà. Molesin non dimenticò più nè di pizzicare nè di voltare le carte.

Il sior Momi, dal canto suo, accordava il sorriso delle carte buone, che veniva voltando, col sorriso d’interne visioni. Al convento per sua figlia, fattogli balenare da Molesin sulla fede di don Emanuele con una relazione alquanto fantastica delle parole di costui, non aveva creduto nè credeva. Giudicava che sua figlia fosse di temperamento amoroso. «Se sbaglio» pensava egli pure, «si vedrà.» Intanto mostrerebbe di credere al giudizio del cappellano, seconderebbe, con prudenza, l’azione dei preti. A richiamare la ragazza non poteva sottrarsi. Se poi resistesse... si vedrà. La Gorlago se ne va domattina, non a Cantù, come sarà detto, ma a Padova, colla chiave della casa e della cantina con un buon gruzzoletto di quattrini; e vi conduce vita ritirata fino a che le faccende si mettano in qualche modo chiaro. Questo è il patto suggellato nello studio con un tenero abbraccio, dopo l’uscita di Molesin: una canaglia da giuocare, ha detto Momi alla sua Moma, come la chiamava nelle ore di effusione.

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