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312 | CAPITOLO UNDECIMO |
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Dasio.....
Cara amica,
Le scrivo da un paesello solitario fra montagne austere che le nebbie fasciano. Non creda che ci sia venuto per sfuggire il caldo di Milano. Ho rotto con Milano e col mondo, per ora. Le dirò tutto, perchè mi sento filiale, con Lei. Se non Le dispiacesse questa ideale maternità, vorrei chiamarla mamma Fedele. Me lo permette? Dunque Le dirò tutto. In casa di mio zio mi trovavo a disagio da un pezzo. Mio zio è un sant’uomo che ha sciolto il problema di fondere insieme intransigenza religiosa e carità. Se tutti gl’intransigenti fossero come mio zio, costringerebbero il mondo a venerare le loro dottrine. Ma egli non ha nessuna cultura religiosa e, sulla fede di persone che mi conoscono male, mi giudica, in religione, un traviato. È anche necessario dire che le nostre tendenze intellettuali sono diametralmente opposte. Inoltre egli mi ha fatto intendere, con accenni rari e blandi, che mi disapprova di non essermi procacciato un’occupazione regolare, stabile e proficua.
«Dispiaceri gravi, dei quali Le avrà parlato don Aurelio, furono causa che io cercassi pace e silenzio a Velo d’Astico. Ella sa quale pace vi abbia trovato. Ritornato a Milano, vi conobbi ragioni urgenti di non vivere più a carico dello zio. Dopo la nostra pietosa visita al cimitero di Velo, lessi nel Corriere un avviso di concorso alla condotta medica di Valsolda, in provincia di Como. Ne fui colpito perchè in quel paese avrei dovuto a ogni modo recarmi per un ufficio pio verso la persona e la memoria dell’uomo che ho più amato al mondo. Partii subito per la Valsolda, dopo aver detto a mio zio che intendevo prender parte a quel concorso e perciò visitare il paese, a me interamente sconosciuto. Non