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322 | CAPITOLO DUODECIMO |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:334|3|0]]solo pensiero, indifferente a ciò che avrebbe potuto dirle don Emanuele, neppure si meravigliò della richiesta. Avrebbe fatto volontieri a meno di andare, sia perchè i due preti di Velo le erano diventati odiosi, sia perchè era avida di star sola col suo pensiero dominante. Ma, prevedendo altre istanze, altre noie, credette bene di rassegnarsi per essere poi lasciata in pace. Uscì di chiesa quando vide suo padre movere verso di lei per presentarle Molesin che già si atteggiava a un saluto compunto. La siora Bettina la raggiunse fuori della chiesa, la introdusse nella canonica con uno zelo di officiosità e di sorrisi untuosetti, che le costava sforzi e pene incredibili, accettati a onore e gloria di don Emanuele. Siccome l’arciprete e il cappellano erano ancora in chiesa, dovette pensare anche a intrattenere la signorina. Le parlò del decoro col quale si erano celebrate le esequie, della dignitosa gravità, della edificante compunzione di don Emanuele nella pratica dei riti, esaltandolo anche sopra il proprio cognato «un santo, ma alla buona». Poi lo esaltò come conoscitore, malgrado l’età giovanile, e direttore di anime, al quale ogni coscienza avrebbe potuto tranquillamente affidarsi. Paragonò, con trepide riserve, suo cognato al curato d’Ars e don Emanuele a Sant’Alfonso. Lelia non intese una sola di tante parole. Guardava l’uscio attendendo che questo benedetto prete finalmente comparisse e si sbrigasse. Era stato il suo confessore. L’aveva confessata due o tre volte e quindi pregata di confessarsi dall’arciprete, allegando un pretesto, il probabile dispiacere del Superiore ch’ella non lo preferisse come sarebbe stato naturale. A lei, usa dal collegio fare confessioni puramente formali, senza partecipazione dell’anima, era indifferente confessarsi all’uno o all’altro.
Finalmente, quando anche la povera siora Bettina, a corto di chiacchiere, cominciò a guardare l’uscio, questo