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332 CAPITOLO DUODECIMO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:344|3|0]]colpo di testa. Non sapeva spiegarlo che coll’amara ripulsa della signorina Lelia. Seguivano queste parole:

«S’egli si è allontanato da me in tal modo, temo di una grave crisi della sua stessa coscienza religiosa. Ho ragioni di temerla. Ah quale benedizione se la persona che sappiamo lo avesse conosciuto meglio!»

Lelia posò la lettera, senza parlare.

«Hai visto?» disse donna Fedele.

«Perchè mi fa leggere di queste lettere?» esclamò la ragazza, sdegnosa. «Non intendo che mi riguardino.»

«Dunque non ti riguarda il male che fai?»

«Qual male? La crisi religiosa? Per me è avvenuta e ne sono contenta» replicò Lelia, amaramente. «Lascio il cattolicismo a mio padre e al dottor Molesin, che stamattina sono andati a messa insieme, al cappellano che la diceva, all’arciprete...»

«E a me, vero?» disse donna Fedele, pacata.

Lelia tacque. Non si era proposta di ferire così ma fu contenta di aver ferito. Allora l’altra, sempre tranquilla, disse:

«Grazie.»

E riprese il libro che stava leggendo quando era venuta Lelia, i canti di un grande poeta cattolico, non però cattolico alla maniera di don Emanuele, ma piuttosto alla maniera di Dante: Adamo Mickiewitz. Lelia si sentì congedata. Credette vedere umidi gli occhi di donna Fedele e fu per buttarle le braccia al collo. L’impeto buono abortì. La fanciulla si mosse per andarsene.

Aveva già aperto l’uscio quando l’amica la richiamò.

«Siamo state cattive tutte due» diss’ella, stendendole la mano. «Vieni, facciamo la pace.»

Lelia afferrò la mano distesa con ambedue le proprie, la baciò e fuggì.

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