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INTORNO A UN'ANIMA 335

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Quel blando, sorridente «i preti» pieno di sottintesi, irritò Lelia più che non l’avrebbero irritata un rabbuffo, un divieto. I suoi nervi contratti non potevano avere lo sfogo della ribellione violenta. Si chiuse in camera, non ne uscì neppure all’ora del pranzo per non vedere suo padre. Voleva scrivere a donna Fedele secondo si era proposto e non lo potè. Solo il sapere ch’egli andava e veniva per la casa, solo l’aspettarsi a ogni momento di udirne la voce, i passi, le impedivano di raccogliersi. Appena Teresina le ebbe detto, dopo le dieci, ch’egli si era coricato, si mostrò tanto impaziente della presenza di lei che la cameriera si spaventò ricordando la fuga notturna dal villino. Pressata di andarsene, non potè a meno di esclamare: «cossa vorla far po, signorina?» Lelia rispose che voleva unicamente restar sola e scrivere. La povera Teresina passò la notte nel corridoio, seduta sopra un baule. Udì chiudere l’uscio a chiave, andare e venire, interrottamente, per la camera, lacerare, ogni tanto, delle carte, ogni tanto singhiozzare. Poi udì aprire una finestra e allora fu per buttarsi sull’uscio. Dopo un lunghissimo silenzio ecco passi ancora, stridere l’usciolino del gabinetto di toeletta, gorgogliare acqua nella catinella. Più tranquilla, non osò lasciare il suo posto di guardia ma chiuse gli occhi e dopo una breve lotta col sonno si addormentò.

Una brusca voce la scosse. «Cosa fa qui?» Diede un sobbalzò. «Gèsu!» E non seppe aggiungere altro. «Sciocca!» esclamò Lelia. «Scenda e mi apra la porta del passaggio coperto. — Ho mal di capo, voglio prender aria» soggiunse, raddolcita.

Era l’alba, il Torraro soffiava gioia, per Val di Posina, nelle betulle e nei pioppi della Montanina. Lelia salì ai castagni, si buttò a giacere sotto le grandi frondi, come una bambina stordita, nell’erba molle di rugiada. Aveva scritto non ancora chiusa la lettera, non ancora proprio

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