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364 CAPITOLO DECIMOQUARTO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:376|3|0]]pegno che ci avrebbe pensato, che occorreva, in ogni caso, interrogare suo padre. Preso congedo, l’arciprete uscì col cappellano esprimendo sottovoce la propria soddisfazione: «ben ben jà jà.» Fatti pochi passi, ritornò indietro per trovarsi solo con Lelia, dirle cautamente che l’ispirazione di andare a Monte Berico le veniva proprio dalla Madonna e che, se andava, doveva assolutamente conoscere il padre.... Nominò quel Servita, del quale la Fantuzzo aveva cantate le lodi a Teresina.

Raggiunto il compagno che l’attendeva a mezza costa, l’arciprete si allontanò con lui di buon passo, da uomo soddisfatto e pieno di belle speranze. A lui bastava che la ragazza andasse spontaneamente ai Sacramenti. Era forse desiderabile che l’arciprete servisse Iddio e la Chiesa con maggiore intelligenza, con maggior sapere, con un cuore più caldo di sentimento evangelico, ma non si poteva negare ch’egli fosse un servitore onesto e fedele. A immagine e similitudine di alquanti altri suoi colleghi di servizio e di divisa, egli non conosceva per gli erranti nella fede altra carità che di parole, li avrebbe volontieri buttati nell’Astico dallo scoglio di Mea, chiamandoli poveretti e poverini; ma per gli errori di altro genere aveva parole burbere e cuore benefico, penetrato di quell’antica tradizione che non erige in teoria nè morale troppo rigida nè morale troppo lassa, che si regola colle anime peccatrici secondo un sapiente concetto delle fragilità umane e della bontà del Padre. Il suo pensiero era che Lelia fosse una testolina stramba, che in fatto di religione fosse ignorante, capacissima di mettere assieme spropositi di condotta e pratiche; ma che, in fin de’ conti, quando si mettesse in regola colla Chiesa, ci fosse da confidare nella paterna indulgenza di Chi le aveva dato quel cervello di puledra selvatica. Rideva in cuor suo di don Emanuele che sperava farne una monaca. Per don Emanuele il pellegrinaggio

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