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O MI POVR'OM! 393

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Mio padre non sa e non deve sapere che il più tardi possibile. Per riuscire nel mio intento ho finto e mentito da figlia vera e legittima di lui.

Mi perdoni. Quello che faccio è un atto di amore, di umiltà e di giustizia. Devo a Lei la risoluzione e la forza di compierlo. Non mi rimproveri, mi getto nelle Sue braccia, mi benedica.

Lelia.

Il giorno moriva e la cugina Eufemia ritornò per chiedere all’ammalata se desiderasse un lume, se volesse mettersi a letto. L’ammalata rispose, colla solita dolcezza tranquilla, che desiderava restar sola fino a che avesse suonato. La vecchietta si ritirò. Ritornò dopo un’ora, inquieta di non essere ancora stata richiamata. Spinse l’uscio pian piano, spiò. Vide nel vano della finestra, nera sul cielo sereno di stelle, l’alta figura di sua cugina. Le parve che piegasse il viso, in atto di preghiera sulle mani giunte. Si ritirò, inavvertita. Pochi minuti dopo, ecco il colpo di campanello. Entrò in camera con un lume. Donna Fedele, adagiata sulla poltrona, le fece scrivere sotto la sua dettatura due telegrammi da spedire l’indomani mattina. Il primo, a Massimo Alberti, diceva: «quel giovine sia cristiano e gentiluomo.» Il secondo, al suo agente di Torino, diceva: «Avverta Mauriziano che, per circostanze imprevedute, differisco.»

«Oh mi povr’om!» esclamò la cugina Eufemia, invece di scrivere «differisco». Non voleva scriverlo, come non avrebbe voluto scrivere una sentenza di morte. Cosa era mai accaduto? Le circostanze imprevedute erano senza dubbio saltate fuori da quelle lettere. Per quali chiacchiere scritte si doveva differire una

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