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410 CAPITOLO DECIMOSESTO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:422|3|0]]golo dello scompartimento. Allora il giovine, pur senza avvicinarsi, diventò di una galanteria insolente, le disse che se aveva l’abitudine di viaggiar sola, così giovane e così carina, non doveva spaventarsi per tanto poco, disse che aveva voglia di vederle ancora collera negli occhi perchè nella collera erano meravigliosi. E si avvicinò dicendo che da lontano non poteva vederli bene. Ella uscì, tutta tremante, nel corridoio, pregò un conduttore di portarle i bagagli in un altro scompartimento. Le offese di quello sfacciato le fecero sentire quanto ell’appartenesse ad Alberti. Più che per se stessa ne soffriva per lui. Soffriva che si fosse mancato di rispetto a una donna amata da lui. E quando si trovò nello scompartimento vicino, con due sole vecchie signore, si sentì ancora nelle sue braccia come nel partire da Vicenza, con tale vivezza che le balenò di essere da lui pensata in pericolo.

A Milano, mentre andava al caffè della stazione per aspettarvi la partenza del treno di Porto Ceresio, un ufficiale le disse due parole di complimento che la turbarono diversamente. Se ne sdegnò e se ne compiacque nel tempo medesimo. Sapeva di non potersi dire veramente bella e avrebbe tanto voluto esserlo per lui! Si chiamò sciocca, in cuor suo, ma la dolce compiacenza rimase. Nel caffè, udendo una signora parlar piemontese vicino a lei, le venne in mente donna Fedele. L’aveva pensata nel passare in treno davanti al villino delle Rose, poi mai più. N’ebbe rossore, ma neppure adesso diede un pensiero all’operazione che l’amica doveva subire. Si disse ch’ell’avrebbe torto di non esser contenta della sua fuga, della sua dedizione ad Alberti, e non vi pensò più.

Prese posto nel treno di Porto Ceresio, presso due bambine che presto cominciarono a guardarla e a sorridere. Poi, malgrado le proibizioni della madre,

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