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464 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:476|3|0]]negativa. Donna Fedele l’ammise e fu poi contenta di apprendere che Massimo sperava di conseguire il posto di medico condotto in Valsolda. A ogni modo era necessario che Lelia partisse con lei. Massimo riconobbe questa necessità. Pensò che sarebbe stato difficile persuaderne la fanciulla ma lo tacque.

«Chiamala» disse l’ammalata.

Lelia venne e udito di che si trattava, impallidì. «No no!» esclamò, piuttosto in tono di preghiera che di protesta. Donna Fedele le diede della bambina. Ella e Massimo si erano intesi, le cose avrebbero il loro corso. Come mai non capiva la sconvenienza, la impossibilità, per lei, di restare in Valsolda? Lelia si spiegò. Sperava che vi sarebbe rimasta donna Fedele per qualche giorno, che si sarebbe giovata di quel riposo, di quella pace. E poi l’accompagnerebbe a Torino. Certo le doleva di partire dalla Valsolda ma di ritornare a Velo aveva orrore addirittura. A diventare maggiorenne, padrona di sè, le mancavano mesi, solamente mesi! Donna Fedele le fece osservare che a Torino ella sarebbe rimasta affatto senz’appoggio.

«Se tuo padre lo permettesse» diss’ella dopo alcuni momenti di riflessione, «potrei lasciarti a Santhià presso mia cugina.»

Fu convenuto, dopo una breve discussione, che per quel giorno donna Fedele riposerebbe, che l’indomani mattina sarebbe veduta dal medico di Cadate e, avutane l’autorizzazione, partirebbe con Lelia per Torino avvertendo col telegrafo la cugina di trovarsi alla stazione di Santhià per ricevere la ragazza, mentre l’Eufemia, ricuperato il baule cui donava qualche segreto sospiro, avrebbe proseguito con lei; di fare rispedire all’indirizzo di Santhià le lettere che pervenissero a San Mamette per Lelia. Donna Fedele cedette, per il meglio, sul punto del permesso paterno. Il sior Momi era stato

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