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470 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

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V.


Fermo all’uscita della stazione di Porto Ceresio, pallido, palpitante, Massimo aspettava di vedere fra i passeggeri del treno di Milano, giunto in ritardo, le facce conosciute di don Aurelio e degli amici di Roma che gli avevano annunciato il loro arrivo insieme alla salma. Nessuno. Alla prima impressione, quasi di sollievo, sottentrò un dispettoso rammarico di non essere stato avvertito del ritardo, di avere lasciato Lelia e donna Fedele così presto, senza necessità. Parlò col capostazione. Non sapeva niente; promise di telegrafare a Milano per avere notizie della funebre spedizione. Massimo andò ad aspettarle al caffè della stazione, sulla spianata, cinta d’una ringhiera, che fronteggia il lago.

Là, in faccia all’acqua tranquilla, fra le immagini verdi delle rispecchiate montagne, il suo pensiero immobile rispecchiava similmente tre figure: la figura dell’amata giovinetta ardente; la figura della soave donna venuta, per la giovinetta ardente e per lui, forse a morire in un albergo, mossa da un amore di altra natura, maggiormente alto e sereno; la figura di Benedetto, più lontana, amata e temuta a un tempo. Questa, improvvisamente, gli si avvicinò, gli si ravvivò. Egli si sentì sul capo la mano del Maestro morente, sentì quasi cingerselo dal braccio che non aveva più la forza di stringere, udì la fievole voce: «siate santi.» E udì anche: «ciascuno di Voi adempia i suoi doveri di culto come la Chiesa prescrive, secondo stretta giustizia e con perfetta obbedienza.» Pensò che il giorno prima, domenica, non si era curato di andare a messa. Ciò non gli era ancora accaduto mai. Rompere colla Chiesa nel pen-

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