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478 CAPITOLO DECIMOSETTIMO

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:490|3|0]]fu piena in un momento di gente, di ceri accesi. La signora velata non avrebbe potuto entrare, se, per un rispetto istintivo, la folla non si fosse aperta davanti a lei e alla sua compagna. Presero posto nell’ultima panca, presso la pila dell’acqua santa, molto guardate. Nessuno sapeva chi fossero. I soli a sospettare del nome della dama velata furono Massimo e don Aurelio; ma non parlarono, non si apersero, compresi da rispetto, il loro segreto pensiero.

Le esequie incominciarono, rispondendo la gran voce del popolo a quella del sacerdote. Massimo pregò ginocchioni tutto il tempo, col viso chiuso nelle mani. Così fu vista pregare tutto il tempo la signora velata. Vi furono dei mormorii prima alla porta maggiore e poi a quella di fianco perchè un ragazzo di San Mamette che aveva una lettera per il signor dottor Alberti voleva entrare a forza. Non entrò. La lettera gli fu presa e non potè venire consegnata subito a Massimo. Terminate le esequie, egli e i suoi cinque compagni risollevarono la bara, mossero dietro il sacerdote. La chiesa si vuotò rapidamente. Ultima si alzò e uscì la signora velata. Vista l’angustia del viottolo, i ceri già lontani e la folla, rientrò in chiesa. La sua compagna cercò e trovò fra gli ultimi del seguito un barcaiuolo che prese impegno di condurre lei e l’altra signora, più tardi, a Lugano.

Durante il breve tragitto dalla chiesa al cimitero, i cumuli di nubi cominciarono a dar lampi e un colpo improvviso di vento spense quasi tutti i ceri. La bara fu deposta a sommo della gradinata che mette al cancello del cimitero. I portatori dei pochi ceri rimasti accesi fecero ala sulla gradinata. Un altro soffio spense anche quelli, stridette intorno per gli ulivi protesi verso il lago. Don Aurelio, ch’era rimasto indietro, si fece

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