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FUSI E FILA 47

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Finita la messa, donna Fedele sussurrò a Massimo:

«Lei aspetterà don Aurelio. Io vado dal mio amico. Verrà anche Lei, vero, più tardi?»

Lì per lì, Massimo non intese che l’amico era Carnesecca. Fece, a caso, un cenno di assenso e sedette aspettando don Aurelio.

Dovette aspettare un pezzo. Il ragazzo che aveva servito la messa spense le candele e se n’andò per i fatti suoi. Il signor Marcello, dopo avere pregato alquanto, si alzò dalla sua panca, entrò in sagrestia. Massimo udì un bisbiglio e poi più nulla. Passavano i minuti, nè il signor Marcello nè don Aurelio ricomparivano. Egli non n’era impaziente. Godeva il senso di pace diffuso intorno a lui nelle povere mura, nei poveri vecchi arredi che gli suggerivano immagini di case anche più povere, di gente semplice, di feste della fede ingenua; mentre il vento vivo della porta aperta gli portava odori freschi di bosco e di prato, voci dai campi, lontane. Godeva il ristoro dagli strepiti e dalla polvere di Milano infocata, come la sera prima, salendo alla Montanina sul fianco del vallone scuro dove canta l’acqua cadente nel folto delle macchie. Gli era dolce di sentire e di non pensare. Anche gli suonava nella memoria, come un canto lontano lontano, la musica della notte. Lo invase, poco a poco, un sopore pieno di vaghe immaginazioni. Le voci di un coro sotterraneo empivano soavemente la chiesa, mentre una giovine donna, con i capelli scomposti e le palpebre abbassate, usciva della sagrestia, veniva lenta fino a lui, si chinava a toccarlo sulla spalla destra. Trasalì dal cuore, aperse gli occhi, vide don Aurelio, solo, che lo aveva toccato e sorrideva.

Chiusa a chiave la porta della chiesa, don Aurelio

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