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FUSI E FILA 53

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leila (Fogazzaro).djvu{{padleft:65|3|0]]intorno alla povera umile casa dell’uomo di Dio, dell’anima penetrata di Cristo. Adesso niente aveva più espressione. Le buone voci delle cose tacevano, colte da un gelo. Nè Massimo nè donna Fedele osarono dire il loro sdegno nella vicinanza di don Aurelio come non l’avrebbero detto in chiesa. Udirono il passo del curato sulla scala e la voce di Carnesecca che gridava: «Voglio, signore! Voglio!» Udirono don Aurelio rispondere: «No! No!» Poi più nulla.

«Vorrà partire» mormorò donna Fedele «per causa della lettera. Figurarsi se don Aurelio lo lascia partire in quello stato!»

Don Aurelio non compariva. Donna Fedele si spiccò da Massimo, prese la scala, entrò, senza bussare, da Carnesecca. Massimo fu molto meravigliato di vederla scendere tosto, ridendosi nelle mani strette sul viso. Aveva trovato Carnesecca colle gambe nude fuori del letto. Erano due tali trampoli neri e secchi di gambe e il pover uomo si era messo a gridare così disperatamente «via! via!» tirandosi addosso le lenzuola, che donna Fedele, col suo carattere, non avrebbe potuto trattenere le risa neppure se le fossero morti il padre o la madre quella mattina.

Ella raggiunse la Lúzia fra i piselli, la consigliò di andare ad assistere il suo ammalato. La Lúzia non volle saperne. Faceva sempre così, quell’uomo. Voleva scendere dal letto senza aiuto. Mandava fuori anche lei, allora. Ma se gli venisse un capogiro? Se cadesse? Se si rompesse un braccio? Se si rompesse il femore?

«Vergine benedeta, quante robe!» fece la Lúzia, dura.

«Eh, quante robe!» ribattè donna Fedele, ridendo. «Mi pare che basterebbe una.»

Rise anche la Lúzia e continuò la sua vendemmia di piselli. Allora Massimo si avvicinò, propose di andar egli.

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