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84 CAPITOLO SECONDO

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Lelia venne a pranzo in ritardo. Vestiva di nero e portava alla cintura un mazzo di fiori della memoria. Pallidissima, non toccò, quasi, cibo. Rivolse a Massimo, con visibile sforzo, qualche domanda intorno a ciò che aveva veduto e fatto nella giornata, senza prestare attenzione alle risposte di lui. Il signor Marcello le guardava spesso quel nero e quei fiori con un misto di tenerezza e di rincrescimento. Parlò molto di donna Fedele, con ammirazione affettuosa e riverente. Parlò della sua passata bellezza, della gioventù sopravvivente nei grandi occhi bruni, nella voce dolcissima. Si dolse, guardando Lelia, che non frequentasse la Montanina come in passato.

«Per verità» disse la fanciulla «si dovrebbe andar noi da lei.»

Il signor Marcello, irradiato di piacere, di gratitudine, le prese e strinse una mano, che rimase inerte nella sua.

La conversazione si voltò alla cacciata di don Aurelio. «Chi è questo arciprete?» domandò Massimo. «Gesummaria!» esclamò il signor Marcello. E si coperse gli occhi colle grandi mani ossute, significando un mondo di cose. Più di «Gesummaria!» non disse nè Massimo domandò altro. Lelia teneva gli occhi bassi, ma il viso non era di Sfinge; era piuttosto di persona che non approva e si rattrista. Massimo ne fu punto a dire di don Aurelio come di un prete che gli intransigenti non avevano ragione alcuna di perseguitare. Era un rosminiano, non sospettato di modernismo neppure a Roma, quando vi dimorava. Qualche domanda del signor Marcello condusse facilmente il giovine a discorrere del suo soggiorno in Roma, di Subiaco e di Jenne, a raccontare l’origine delle sue relazioni con don Aurelio, con don Clemente, con Benedetto, a dire i casi di quest’ultimo, dalla notte in cui era scomparso dalla sua casa di Oria in Valsolda e dal mondo per

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