< Pagina:Leonardo prosatore.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

21

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Leonardo prosatore.djvu{{padleft:25|3|0]] sua vita, e desidera la rovina degli altri; necessità spinge gli uomini a cacciarsi l’un l’altro.

Una dolorosa feroce lotta: ecco la vita.

Può almeno l’uomo avere un conforto nell’amore? Nessuna traccia nei manoscritti leonardeschi dell’amore platonico che così ardenti entusiasmi destava nel secolo epicureo di monsignor Bembo, anzi trascritta una canzonatura all’indirizzo del lauro cantato dal Petrarca:


Se ’l Petrarca amò sì forte i’ lauro,
fu perchè (gli) è bon fra la salsiccia e tordo,
(i’) non posso di lor giance far tesauro!


Resta l’amore sensuale, ma questo ben si capisce come poteva esser visto da Lui che considerava unica vera vita quella dell’intelletto: lo condanna con parole in cui vibra un’acre ripugnanza estetica (brutte le membra, gli atti), e la tristezza di gravi riflessioni.

Piacere e Dispiacere Egli raffigura con le schiene voltate, ma binati sullo stesso corpo: sono contrari l’uno all’altro, ma hanno unico fondamento; è il leopardiano piacer figlio d’affanno, ma è anche l’affanno figlio del piacere. Pare ch’Egli abbia sentito la tristezza cupa della carne soddisfatta quando l’anima è insoddisfatta. Egli che, certamente, non incontrò mai anima vera d’amante.

L’infermità, la debolezza, la corruzione perenne del corpo umano gli appare, certi momenti, in tutta la sua bruttura; serrata la gola dal disgusto dell’animalesca materia, insiste, come chi non sa sottrarsi

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.