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III.

Quindici giorni erano passati.

Alle torri della città di Kassel suonava la mezzanotte.

I buoni sudditi del potentato di Vestfalia dormivano il sonno dei giusti. La guardia notturna camminava malinconica per le deserte vie, fumando la sua corta pipa dal cannello di visciolo.

Ma nel così detto Salone turchino di Napoleonshöhe non regnava tanto silenzio. Sedeva qui una piccola ma scelta brigata intorno ad una tavola bene imbandita. Erano ormai al dessert. Magnifici frutti, finissimi biscotti, sciampagna spumante, ed altri indispensabili ingredienti di un lussurioso banchetto spandevano intorno una fragranza inebbriante. Con ardita spontaneità i bicchieri si urtavano l’uno contro l’altro. Quel tumulto di voci era interrotto soltanto dagli scoppi di risa o dall’armonia di un’allegra canzone. In una parola, il Salone turchino era un’altra volta testimonio di una di quelle intime cene che incominciavano verso le undici, e per solito duravano fino alle tre ed alle quattro del mattino.

— Alla salute del re! — gridò una piccola dama dagli occhi glauchi ed abbigliata con sfarzo.

Prese il bicchiere, lo portò alle labbra, e lo vuotò in un fiato.

— Angiolo mio dolcissimo! — bisbigliò il re, mentre le circondava col braccio la vita. — Avrai un bacio in ricambio.

La dama si schermì.

— Santo Dio, come sei ritrosa! — esclamò Girolamo ridendo.

— Che ti frulla pel capo, mia Lilì? Noi siamo qui in famiglia! Non è vero, Fürstenberg, che la nostra piccola Heberti non deve, per riguardo vostro, imporsi alcun freno?

La compagnia rideva sotto i baffi.

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