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194 di Tito Lucrezio Lib. IV.

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  Fian senza intoppo, ir non dovran più ratte,
  E più spazio passar nel tempo istesso,
  315Che la luce, e ’l vapor passano il cielo?
  Ma di quanto l’immagini de’ corpi
  Sian veloci nel corso, io per me stimo
  Esser principalmente indizio vero
  L’esporsi appena all’aria aperta un vaso
  320D’acqua, ch’essendo il ciel notturno, e scarco
  Di nubi, in un balen gli astri lucenti
  Vi si specchian per entro. Or tu non vedi
  Dunque omai, quanto sia minimo il tempo,
  In cui dell’auree stelle i simolacri
  325Dall’eterea magion scendono in terra?
  Sicchè voglia, o non voglia, è pur mestiero,
  Che tu confessi esser vibrati intorno
  Questi minimi corpi atti a ferirne
  Gli occhi, e la vista provocarne, e sempre
  330Nascere, ed esalar da cose certe;
  Qual dal sole il calor, da’ fiumi il freddo,
  Dal mare il flusso, ed il riflusso edace
  Dell’antiche, muraglie a i lidi intorno.
  Nè cessan mai di gir per l’aria errando
  335Voci diverse; e finalmente in bocca
  Spesso di sapor salso un succo scende,
  Quando al mar t’avvicini; ed all’incontro,
  Mescer guardando i distemprati assenzj,
  Ne sentiam l’amarezza. In così fatta

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