< Pagina:Lucrezio e Fedro I.djvu
Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta.
8 di Tito Lucrezio Lib. I.

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Lucrezio e Fedro I.djvu{{padleft:36|3|0]]

  Versi l’oscure invenzioni; essendo
  Massime di mestier, che di parole,
  180Spesso nuove io mi serva: a ciò costretto
  Sì dalla Lingua mia, che della Greca
  Viepiù scarsa è di voci, e sì da quelle
  Cose, ch’io spiegar tento che null’altro
  Spiegò giammai nell’idioma nostro.
  185Pur nondimen la tua virtude è tale,
  E lo sperato mio dolce conforto
  Della nostr’amistà, ch’ognor mi sprona
  A soffrir volentieri ogni fatica,
  E m’induce o vegliar le nott’intere
  190Sol per veder, con quai parole io possa
  Aprire innanzi alla tua mente un lume
  Talchè le cose occulte a pien ti mostri
Or si vano terror, sì cieche tenebre
  Scuoter bisogna, e via scacciar dall’animo
  195Non co’ bei rai del Sol, non già co’ lucidi
  Dardi del giorno a saettar poc’abili,
  Fuorchè l’ombre notturne, e i sogni pallidi,
  Ma co ’l mirar della Natura, e intendere
  Le ignote cause, e la velata immagine.
  200Tu, se di conseguir ciò brami, ascoltami
Sappi, che nulla per divin volere
  Può dal nulla crearsi, onde il timore,
  Che quind’il cor d’ogni mortale, ingombra,
  Vano è del tutto; e se tu vedi ognora

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.