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20 | di Tito Lucrezio Lib. I. |
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Dunque se di due cose eguali in mole
L’una più lieve fia, chiaro n’insegna
D’aver manco di corpo, e più di Vuoto,
505Ma se più grave pe ’l contrario mostra
D’aver manco di Vuoto, e più di corpo,
Che sia dunque tra i corpi il Vuoto sparso;
Benchè mal noto ‘a’nostri sensi infermi,
Per l’addotte ragioni è chiaro e certo.
510Nè qui vogl’io che deviar dal vero
Ti possa mai quel, che sognaro alcuni;
E perciò quanto io parlo ascolta, e nota.
Dicon, che ’l mare allo squamoso armento
Apre l’umide vie, perch’egli a tergo
515Spazio si lascia, ove concorron l’onde,
E che in guisa simile ogn’altra cosa
Mover si puote, e cangiar sito e luogo;
Ma falso è ciò, ch’ove’ potranno al fine
I pesci andar, se non dà luogo il mare?
520E dove al fin, se non dan luogo i pesci,
Il mar n’andrà, benchè cedente e molle?
Forz’è dunque o privar di moto i corpi,
O fra le cose mescolare il Vuoto,
Che sia cagion de’ movimenti loro.
525S’al fin due piastre di lucente acciaro
Si combattano insieme, ind’in un tratto
L’una dall’altra si solleva, è d’uopo,
Che vuoto resti l’interposto spazio;