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— Tralasciamo, tralasciamo — diss’egli — verrò bene un’altra volta.

Ed ecco da capo Fanny.

— La signora marchesina desidera sapere — disse ella — cosa il signor conte vuole da lei.

— Ditele che la prego di voler finire, in vece mia, una partita a scacchi con il signor dottore.

— Ah Signore — esclamò questi — che non si disturbi mica per me!

— Andate — disse il conte.

Gli occhi del dottore, poi che rimase solo, brillarono.

— Ah che non mi perda con le pedine? — disse egli tra sè, fregandosi le mani. — Per la tua bella faccia! Togli su.

Aveva poc’anzi ottenuto da Fanny un appuntamento per quella notte alla cappelletta, un luogo solitario, a riva del lago, poco discosto dal Palazzo. Fanny avea promesso che vi sarebbe venuta con la lancia dopo mezzanotte. Era irrequieto, girava pel salotto, cercava uno specchio per vedersi felice e farsi delle congratulazioni. Non c’erano specchi là, non c’erano che i vetri aperti della finestra, dove gli riuscì d’intravvedere una languida immagine del suo viso beato. Guardò giù nel cortile dove era stato visto dal conte a colloquio con Fanny, e mormorò:

— Maledetta finestra!

Il conte attraversava il cortile e saliva imperterrito la scalinata arsa dal sole, fra le grandi ombre ferme dei cipressi, lo stormire, il luccicar delle vigne corse dal vento meridiano. Il dottore gli diede un’occhiata e, sicuro del fatto suo, se la svignò in cerca di Fanny.

Intanto il pedone della Regina bianca e il pedone del Re nero, stretti corpo a corpo per obliquo e immobili, si domandavano se vi fosse pace o armistizio o Consiglio di guerra. Ma nè loro nè altri in tutto il campo

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