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— Che diavolo!— replicò il conte.— Bisogna far visita a mia nipote, adesso. Quando crede, professore...

Il professore distribuì in fretta sorrisi e strette di mano ai cinque dignitosi municipali e partì col conte.

— Noi faremo ballare gli orsi— sussurrò il commendator Finotti a donna Marina.

Ma gli orsi non erano tanto orsi quanto s’immaginava lui. Tre di essi, gli assessori supplenti e il sindaco, si conoscevano abbastanza per non aprir bocca mai. Gli altri due, gli assessori effettivi, potevano dar dei punti, per furberia, al signor commendatore. Per scioltezza di scilinguagnolo non gli stavano troppo al disotto, posto ch’erano contadini; grassi se si vuole, ma contadini da gerla e da zappa. — Siamo poveri alfabeti di campagna — diceva uno di loro. Avevano finissimo il fiuto della canzonatura.

Si parlò, naturalmente, della cartiera. Il Finotti fece una pittura, a gran tratti di scopa, delle meraviglie industriali che si sarebbero vedute, dei favolosi guadagni che avrebbe fatto il paese. I due approvavano col capo a più potere, fregandosi i ginocchi con le mani.

— Com’è diventato aguzzo il mondo!— disse il più vecchio.

— E noi restiamo sempre tondi — rispose l’altro. — Almeno se non ci piallano un poco.

— Comune ricco, già— disse il Finotti.

— Sì, quattro sterpi e un paio di viaggi d’erba, su quelle croste là in faccia, dove tutti si servono. Quando li avremo mangiati per far la strada della cartiera, allora diventeremo ricchi; ma per adesso... Allora sì. Sarà forse per quel vino che ci ha favorito, per sua grazia, il signor conte, allora mi pare che abbiamo da diventar signori bene. È un gran vino; ma sarà mica traditore? Cosa ne dice Lei, signor tedesco, che lo vedo qualche volta dalla Cecchina gobba?

— Ah! Ah!— soffiò Steinegge senza capir bene.

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