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— Da questa parte.

— Allora se permette, resto qui.

Il conte s’inchinò, ordinò di portare un lume per la signorina e si avviò di sopra con gli ospiti. La contessa Fosca gli raccontò che quella ignota signorina era discesa con loro dal treno, e aveva chiesto, com’essi, una vettura per il Palazzo; che vedendola, pover’anima, sola soletta (e alla stazione non c’era mezzo asino da farsi trascinar via) le aveva offerto di venire, se voleva, con loro, posto che in paese si fossero trovate vetture, come infatti a grande stento se ne trovarono. «Chi sia e cosa voglia» aggiunse la contessa «non l’ho inteso. Già ha detto pochissime parole; e, volete che ve la dica? Mio fio sostiene che parlò italiano e io ho sempre creduto che parlasse tedesco. Estenuata poi! Questo sì l’ho capito. Grazie tante: un viaggio di questa sorte!»

Il conte non fiatò. — Che duro, la mia anima — mormorò Sua Eccellenza tra sè. — E Marina! Dov’è questa briccona di Marina? È a cena forse? Perchè dico...

In quella entrò Marina. Ella abbracciò la contessa, strinse la mano al cugino con grazia disinvolta e si lasciò dire dalla prima un mondo di dolcezze, di complimenti, sulla sua bellezza, con dei risolini pazienti, delle strette a quattro mani, dei brevi: «Cara! cara! cara!». Sua Eccellenza Nepo parlava intanto con il conte Cesare. Sua Eccellenza era un giovinotto sui trent’anni, bianchissimo di carnagione, con un gran naso aquilino male appoggiato a sottili baffetti neri, con un paio di occhioni neri a fior di testa, il tutto incorniciato da una ricciuta zazzera nera e da un collare di barba nera che pareva posticcia su quella pelle di latte e rose. Aveva le mani assai piccole e bianche. Parlando sorrideva sempre. Il suo passo breve, ondulato, i gomiti quasi sempre stretti alla vita, il parlare stridulo, frettoloso, mettevano intorno a lui un’aura femminile che feriva subito chi lo incontrava la prima volta. A Venezia lo chiamavano il conte

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