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Entrarono, la figlia a braccio del padre. Era la curiosa Fanny, che stava sulla soglia con una candela in mano.

— Buona sera — disse Edith.

Fanny, che non teneva in gran stima — lo straccione — Steinegge, arrischiava un risolino beffardo quando Edith passò davanti a lei salutandola. Il risolino le morì sulle labbra ed ella s’inchinò graziosamente senza parlare.

— In qual modo — pensava — il vecchio zuruch può avere dimestichezza con una damigella così?

Aveva visto una bellezza delicata e seria, una persona elegante; aveva notato il passo, l’atto di saluto, la voce dolce e bassa, la semplicità severa dell’abito; e con la sua esperienza delle vere signore, aveva giudicato assai bene di Edith.

— Fateci lume — disse Steinegge.

Fanny lo guardò, meravigliata. Dove aveva egli preso tanta audacia? Di solito osava appena pregare i domestici. Davvero pareva cresciuto di un palmo e camminava impettito come un soldato che dia il braccio a una regina. Fanny obbedì.

Steinegge presentò sua figlia senza la umiltà ossequiosa ch’è debito di chi presenta una parente ai propri superiori. Il conte Nepo e donna Marina si mostrarono freddissimi. Il conte Cesare fu cordiale. Si alzò in piedi, prese con sincera compiacenza la mano della giovinetta e le parlò col suo vocione benevolo della stima e dell’amicizia che aveva per suo padre. La contessa Fosca chiedeva spiegazioni all’uno e all’altro e non arrivava mai a capire. Quando ci arrivò — oh che caso, oh che caso! — non rifiniva più dal fare esclamazioni di meraviglia, congratulazioni e domande di ogni genere.

— Perchè va a sedere così lontano, benedetta? — diss’ella a Edith. — Di contentezza non si cena, sa: e dopo cena, la ci vorrà bene più di prima al papà. Venga qua, cara da Dio, venga qua.

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