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— Qua vien lo sporchetto, Eccellenza. Il suo nome di questo giovane non è il suo nome. Pare che ci sia un pasticcio... non so se mi spiego.

— Eh, insensata, fra me e te, abbiamo duecento anni, e pigli tutti questi giri?

— Come La comanda, Eccellenza. Questo giovane ha un altro nome, ma è figlio del signor conte. Eccola tonda.

Sua Eccellenza si slacciò la cuffia da notte e rimase un momento immobile, a bocca aperta, guardando Catte. Poi si strinse nelle spalle.

— Sciocchezze, insulsaggini — diss’ella — bugie. E dunque?

— Adesso vien l’imbroglio. Non ho capito se ci fosse del tenero fra costui e la signora marchesina o se abbiano trovato da ridire fra di loro, e che lui, voglio dire, che lei ne abbia dette quattro a lui, o se il conte volesse che lei lo togliesse, questo giovine, e che a lui non le piacesse, o che la si fosse messa in pensiero, si sa, per la roba, ciò, e che lui...

Sua Eccellenza buttò via la cuffia.

— Uff, che caldo che mi fai! Cosa vuoi che capisca? Dammi quell’affare! Quell’affare, sì, quell’affare! Non capisci? Vai alla Sensa?

Catte andò a pigliar la parrucca di Sua Eccellenza e si dispose a mettergliela.

— E poi? — disse la contessa.

— E poi... La permetta, Eccellenza, che siamo un poco storti. Ecco così. No, ancora un pochetto.

Sua Eccellenza soffiava come una macchina a vapore.

— La senta, Eccellenza. Chi è adesso che ha da dire che la è parrucca? Dopo tutto, la porta anche la Madonna. La compatisca, Eccellenza. Dunque un bel dì non so come, è nato un bordelo, grida tu che grido anch’io, non so se si siano anche pettinati, l’amico senza dire «cani vi saluto» infilò la calle e chi s’è visto s’è visto. Cose di sei giorni sono. E quel tedesco, Eccellenza,

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