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— Questo è mite di cuore.

Don Innocenzo capì. — Ha ragione — diss’egli umilmente.

— Oh no — esclamò Edith, dolente d’aver dette quelle parole e d’essere stata subito intesa. — Mi dica, dove sta Milano?

— Milano... Milano... — rispose don Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. — Milano è laggiù a mezzogiorno, un po’ verso ponente, dritto oltre quel gruppo di colline.

— Signori, — gridò la fantesca da una finestra, — se vogliono andare al Palazzo, sarà meglio che facciano presto, perchè vuol piovere.

Piovere! Splendeva il sole, nessuno s’era accorto di minaccie. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne del lago venivano su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento meridiano vi porta in giro.

— Marta! — chiamò il curato. — Un ombrello per i signori!

Steinegge protestò. Marta fece al padrone un cenno che l’ingenuo uomo non intese.

— Cosa c’è? Un ombrello, dico!

Marta fece un altro segno più visibile, ma invano.

— Eh? Cos’avete?

Marta, indispettita, lasciò la finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono nulla. Poi comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curato, dicendogli:

— A Lei! che tolga! Bella roba da offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?

— Cos’han da dire? Che non ne ho altri. Gran cosa! Ecco, quod habeo tibi do.

Infatti don Innocenzo aveva più cuor che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il nome. Marta non si tenne da dire piano a Edith: — Ne aveva uno di bello. — L’ha dato via. Dà via tutto!

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