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CAPITOLO V.

Il ventaglio rosso e nero.


Una mattina la contessa Fosca e il conte Cesare si trovarono soli a colazione. Tutti gli altri erano andati a vedere il posto della futura cartiera insieme all’ingegnere Ferrieri, al Finotti e al Vezza, ritornati, il primo per gli affari, gli altri due per vedere un Orrido vicino, pochissimo conosciuto, dove s’era combinato di andare il giorno dopo.

La contessa Fosca pareva ancora più gaia del solito, aveva la parrucca per isghembo e lanciava al conte delle occhiate serie che non s’accordavano con il suo cicaleccio scherzoso. Parlava di cento cose, saltando di palo in frasca. Il conte le rispondeva a monosillabi, a brevi parole buttate là per voltar da sè la corrente. A ciascuna di queste risposte la contessa cambiava argomento, senza maggior frutto. Non se ne mostrava stizzita. Tutt’altro; anzi era sempre più amabile, tanto che il conte tra i suoi già, certo, sicuramente, le lanciò due occhiate di cui la prima, alquanto lunga, voleva dire: — «che diavolo c’è?» — e la seconda, assai breve, — «ho capito.» — Poi non la guardò più.

La contessa tacque un momento, si buttò indietro sulla spalliera della seggiola e si pose a giuocare frettolosamente col suo ventaglio verde, facendosi svolazzar i nastri della cuffia intorno al faccione ridente.

— Che peccato, Cesare? — diss’ella.

— Ma!

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