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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Malombra.djvu{{padleft:210|3|0]]Sempre mangiacarte per casa. Le campagne in man dei ladri, il fattore, capo. Mangia tu che mangio anch’io. Con duemila duecento campi in Polesine, mi toccava di comperare il riso per famiglia; non Vi dico altro. Oh Dio, che vita! Basta, a forza di stenti e di sacrifici, si drizzò la barca. Ma a questo punto dipende da Nepo che non si torni indietro; tutto dipende dal matrimonio che farà Nepo. E adesso ditemi, Cesare: se colla vostra bontà, se col vostro gran cuore non aveste raccolto quella povera Marina, come vivrebbe? Ditemi, benedetto, come vivrebbe?
— Col suo vivrebbe.
— Col suo?
La contessa Fosca aprì tanto d’occhi.
— Sicuramente. La liquidazione della sostanza di mio cognato ha dato ottantamila lire d’attivo.
— Bene, pane e acqua, parliamoci schietto.
— Io non sono veramente così gran signore da dir questo. Io apprezzo ottantamila lire. A me basterebbero.
— Bene, diremo: pane, acqua e pomi. E poi bisognerebbe vedere se vi basterebbero. E poi prendete una sposina giovane, bella, tutto fuoco, piantatevi a Torino o a Milano con dei maledetti nomacci di questa sorta, lunghi da qui come a Mestre, con una fila mai più finita di palle e di corni, perchè ci hanno ad essere anche quelli, vestitela, spogliatela, divertitela, scarrozzatela e anche... sto per dire... sì insomma, arrischiate di far crescere la famiglia, e mi saprete dire, coi vostri ottantamila cossa xeli, quanti salti farete. Io Vi parlo col cuore in mano, perchè Vi considero di famiglia, Cesare. La mia prima idea era quella di portar via Nepo sul momento; ma cosa avreste detto di me? Ho pensato di parlarvi prima come farei a un fratello; e così ho fatto.
— Vi ringrazio molto dell’onore — disse il conte. — Voi mi fate onore assai più che non crediate. Il consiglio che io Vi dò è di partir subito.
La contessa tacque, ferita al cuore.