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— Il vino che versate lascia macchia; le parole no.

La contessa non parve udirlo. Ella si era già alzata e muoveva brontolando verso l’uscio. Suo cugino in piedi, chino sul petto il capo formidabile, la guardava sorridendo: forse perchè Sua eccellenza pareva una papera che, offesa da qualche villano nel suo pasto o nei pacifici colloqui con le amiche o nella contemplazione solitaria, dopo una schiamazzata e una corsa se ne va grave e degna ma tuttavia commossa, mettendo ad intervalli le voci brevi e sommesse dello sdegno suo che si placa. Quando ella fu presso all’uscio il conte si scosse.

— Aspettate — diss’egli.

Sua Eccellenza si fermò e girò un poco la testa a sinistra.

Il conte le venne alle spalle, porgendole un oggetto che teneva con la mano e batteva con la destra.

Sua Eccellenza girò la testa un altro poco e gittò un’occhiata obliqua alle mani del conte; dopo di che girò tutta la persona.

Era una tabacchiera aperta che il conte le tendeva.

Sua Eccellenza esitò un poco, fece una smorfia, e disse bruscamente:

— È Valgadena?

Il conte, per tutta risposta, ripicchiò la tabacchiera con due dita.

Sua Eccellenza porse il pollice e l’indice, soffregandone i polpastrelli uno contro l’altro, con inquietudine voluttuosa; li immerse quindi nel tabacco morbido e disse con voce alquanto raddolcita:

— La fu una grande indegnità, sapete, Cesare. — S’accostò alle nari la sua presa. — Una cosa orribile — diss’ella.

E fiutò il tabacco. Lo fiutò una, due, tre volte, abbassò il capo sulla tabacchiera, aguzzò le ciglia e afferrò la sinistra del conte.

    Malombra. 14

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