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Anche il Finotti e lo Steinegge si stemperarono in complimenti. Nepo si trovò impacciato, si adattò con ambe le mani l’occhialino sul naso, e facendosi vento col fazzoletto, uscì in loggia.

Mentre egli vi metteva piede, Marina pure vi entrava dalla parte opposta.

Ella vide Nepo, parve esitare un momento, andò lentamente ad appoggiarsi alla balaustrata verso il lago, nell’ombra di una colonna: e voltò la testa a guardar suo cugino.

Nepo non poteva dare addietro. Avrebbe voluto parlar con sua madre, saper da lei precisamente come fosse andato il colloquio con il conte Cesare, prima di muovere un passo avanti; ma poichè sapeva che le cose in complesso eran procedute bene, come mai ritirarsi davanti al silenzioso invito degli occhi di Marina! Dicevano chiaro: vieni, siamo soli.

Malgrado la sua vanità egli era imbarazzato. Non aveva tentato fino a quel giorno che sartine, modiste e cameriere, limitandosi con le dame e con le damigelle a colloqui fraterni. Il cuore non gli diceva nulla e la mente ben poco.

Andò a mettersi a fianco di Marina, appoggiò le braccia sulla balaustrata e scosse dal naso l’occhialino.

— Cara cugina, — diss’egli.

Le lenti cadendo sul marmo andarono in pezzi.

Nepo ne sciolse le reliquie dal cordoncino, le esaminò e le lasciò cadere sul macigno sottoposto sospirando: — Erano di Fries.

Recitata questa concisa orazione funebre, ripigliò:

— Cara cugina.

Dietro a lui uscivano sulla loggia le voci della contessa Fosca, del conte Cesare, degli altri, mescolate alla rinfusa in un guazzabuglio scordato.

— Caro cugino — rispose Marina, guardando fuori del piccolo golfo il lago aperto dove i primi fiati della brezza meridiana chiazzavano qua e là di rughe plumbee

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