< Pagina:Malombra.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.
 
— 260 —
 


— Qui non c’è ventagli — disse il conte, brusco, vibrandole un’occhiata che la sgomentò.

— Eh, nossignore, nossignore — mormorò la povera innocente Catte, e ritirò per la porta la sua magra persona, il suo lungo naso.

— Mi preme affermare — ripigliò il conte dopo un istante di silenzio — che io non vi ho consigliata.

Marina sorrise.

— Ma io La ringrazio — diss’ella — del Suo consiglio, io sono felicissima.

Il conte avrebbe voluto adirarsi e stavolta non poteva. Vero che Marina aveva deciso senza consigliarsi prima con lui; ma restavano sempre sulla coscienza sua le parole dette in biblioteca e ora ricordate da lei. Non era uomo da cavillare con la propria coscienza per acchetarla. Soltanto adesso quelle parole gli tornavano a mente; ne esagerava la gravità e si doleva di averle proferite.

— E siete contenta?

— Rispondere di no, adesso, sarebbe un po’ tardi, ma io sono felicissima, l’ho già detto.

— Udite, Marina.

Da gran tempo il conte non aveva parlato a sua nipote con la grave dolcezza che pose in queste due parole. La figlia della sua cara sorella morta avea preso una risoluzione che l’allontanava per sempre da lui. Non credeva che sarebbe stata felice, e ora temeva essere in colpa egli stesso di queste nozze male promettenti. Temeva essersi lasciato trarre a imprudenti parole dal risentimento delle gravi offese recategli da sua nipote, dal desiderio di non vederla più, di non udirne la voce irritante. Tale desiderio, fitto e saldo nell’animo suo fino a quel punto, ora, in sul compiersi, veniva meno.

Perchè Marina non si moveva, fece egli stesso alcuni passi verso di lei e le disse:

— Per il Vostro decoro in questa circostanza penso io.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.