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— È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith — rispose Silla, posando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith.

— Oh, molte grazie, caro amico — disse Steinegge.

Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla.

— Grazie — diss’ella, tra attonita e curiosa. — Che libro è?

— Il libro di cui Le ho parlato iersera.

— Iersera?

— Guardalo dunque! — disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d’impazienza, il primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia.

— Ah, il suo libro Un sogno! Lo leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo Gneist. Ti prego.

Gli rese il libro, senza sfogliarlo, non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e si ripose al lavoro.

— Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere — disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. — Versi?

— No.

— No? Io credeva che voi foste poeta.

— Perchè?

— Scusate, mio caro. — Steinegge prese con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. — Per la vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione a Torino a un giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosa, non a posto. Non fate versi voi?

— Mai.

— Questo è un racconto?

— Sì.

— Sarà stato molto lodato, io credo, dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?

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