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Ed ecco i cipressi, la voce quieta del fonte, ecco laggiù, tra il verde vigneto e il verde lago scintillante di sole, i tetti neri del palazzo. La voce uguale diceva nel gran silenzio del mezzogiorno: — « Lo so, lo so, l’ho saputo sempre, egli è qui ancora, non v’è stupore per l’acqua indifferente che passa senza posa. So la sua storia, so il suo destino e quello di Lei e quello dell’uomo che giace nella stanza buia, nell’ombra della morte. Lo so, lo so. So qual mistero hanno nel cuore colui che più non parla e la donna che palpita, sola, con la fronte appoggiata all’ebano freddo, agli avori dello stipo antico. Questo non può turbare la mia pace. Va, va discendi, confondi ad altre parole il suono delle tue, ad altre passioni il rivo torbido di quelle che gitta il tuo cuore finchè passino e si dileguino insieme. Tutto questo è simile alla mia sorte. Lo so, lo so, lo so ».

Arrivato all’ultimo ripiano della scalinata, vide la Giovanna attraversar la loggia in punta di piedi e a capo chino, dall’ala destra alla sinistra. La vide levare il braccio a un gesto sconsolato in risposta a qualcuno che le era venuto incontro, e tirar via.

Nel cortile non c’era nessuno. Nel vestibolo, neppure. Salendo le scale Silla udì camminare in alto e, a intervalli, una voce maschia che parlava forte. Un domestico venne su, correndo, dietro a lui, lo inquadrò nel passargli a fianco, lo salutò meravigliato, lo accompagnò sino alla porta del salotto da cui usciva la voce forte. Silla si dispose di veder Marina; entrò.

Marina non v’era. V’erano la contessa Fosca, suo figlio, il comm. Vezza, un altro signore attempato vestito di nero e il padre Tosi dei Fate-bene-fratelli, che Silla conosceva di vista, un bell’uomo maestoso, sui cinquanta, dalla gran fronte piena d’anima, dal profilo falcato, dagli occhi pregni di volontà veemente e di umorismo bizzarro. Egli diede appena un’occhiata allo sconosciuto che entrava e continuò a parlare col comm. Vezza. Il

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