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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Malombra.djvu{{padleft:351|3|0]]a punta, con quella faccetta piena di — magon. — È una bellezza.

La contessa lo guardava con tanto d’occhi.

Che tomo ch’el xe! — diss’ella al signore attempato, mentre il frate si sbrigava rapidamente della parca refezione. — Bisognerebbe anche ridere se si potesse. — Non la parte mica subito, padre?

— Non lo so — rispose asciutto il frate.

— Eh, perchè si diceva che La volesse partir subito.

— Si diceva.

— Ma non La parte più?

— Non lo so.

De dia! — mormorò la contessa indispettita.

— Signora — disse il frate con forza e solennità — la malattia, l’ho già detto, è semplicissima. Un’emiplegia destra. L’ammalato può riaversi o morire di questo primo assalto, come Dio vorrà. La causa della malattia è oscura e io vorrei conoscerla, onde, se l’ammalato guarisce, impedire una ricaduta.

— Ma, oh Dio, la causa, benedetto...

Il frate le piantò in viso due occhi sfolgoranti.

— Sì, non serve, caro, che La mi tiri quegli occhi — saltò su la contessa inasprita. — Ella è una cima di professore ma ne ho conosciute anch’io delle cime e ho sempre udito dir loro, che, quanto a cause di malattie, è un brutto discorrere.

— E poi lo zio non può parlare — disse Nepo.

— Signora — rispose il frate senza badare a costui — il padre Tosi non è una cima e ha fatto due grandi corbellerie; ha voluto esser medico, ha voluto esser frate; ma L’avverto che se si fosse fatto commissario di polizia, sarebbe diventato grande. Ho l’onore.

Egli si toccò la calotta, si alzò e uscì.

— Bel discorso! — disse la contessa. — Mi pare un bel matto! E quell’altro? Come è capitato qua quell’altro? Non capisco. Vedete — diss’ella, volta al signore attem-

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