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— Che vi viene in testa? — rispose don Innocenzo.

— Anche le rose, anche i libri tedeschi — disse Steinegge dalla finestra. — Questa è troppa attenzione, signor curato. Noi non sappiamo...!

— Oh, son libracci vecchi di casa mia. Vengano giù, vengano giù che si desina subito.

Il desinare cominciò allegramente. Marta si moltiplicava. Aveva il suo posto a tavola, ma andava e veniva continuamente dalla cucina, malgrado le preghiere degli ospiti e le osservazioni del padrone. Edith le dichiarò che per quel primo giorno lasciava fare, ma che all’indomani si sarebbe presa, o per amore o per forza, la sua parte dell’azienda domestica. Marta rispose con una fila di mai più acuti. Steinegge si offerse come aiutante cuoco, promise i Klösse, disse di averli insegnati a Paolo del Palazzo. Il povero don Innocenzo non sapeva che riscaldare il caffè e si propose, modestamente, per questo.

— A proposito! — esclamò Steinegge, guardandolo parlare senz’ascoltarlo, impaziente che finisse — Non abbiamo ancora domandato del signor conte!

— Sono stato al Palazzo due ore fa — rispose don Innocenzo. — Andava un po’ meglio di ieri sera.

— Come, un po’ meglio?

Steinegge si piegò in avanti, ansioso.

— Malato? — esclamò Edith, sorpresa.

— Non sanno niente? — replicò il curato.

— Ma no!

— Credevo che Marta, non so, che qualcheduno lo avesse detto loro. Euh, cose tristissime, dolorosissime.

— Ah, Signore, non sanno niente! — disse Marta in piedi, colle mani appoggiate alla tavola. — Ma sicuro! Come han da fare loro a saperlo? Non son che due giorni.

— Ma in nome di Dio, cosa è questo? — disse Steinegge.

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