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— Peccato che non è luna! — osservò Steinegge.

Edith disse che qualche volta preferiva alla luna la luce non sentimentale delle stelle. Il suo pensiero era che la luna, piccola terra, piccola schiava nostra, forse un tempo congiunta al pianeta, blandisce col suo lume certe passioni terrene, ammollisce i cuori; mentre le stelle austere, indifferenti a noi, esaltano lo spirito. Questo era il suo pensiero, ma non lo spiegò. Fece solo osservare a don Innocenzo, che quella sera la luce di Venere era tanto forte da segnare ombre sul muro bianco della chiesa.

— È quasi come la luna — diss’ella — e dolce anche questa, ma a me pare più pia.

Tutto le pareva pio in quella disposizione di spirito, anche la voce del vento dietro la chiesa.

— Come va al Palazzo? — chiese don Innocenzo che doveva scendere a visitare una ragazzina inferma.

— Un poco meglio, pare, un poco meglio; pare che l’attacco al polmone è passato.

— Oh Edith, questa casa, questa casa! — esclamò Steinegge dopo che don Innocenzo se ne fu andato.

— Oh!

Egli fece tre gran passi avanti, alzando le braccia, agitando le mani distese.

Edith non parlò fino al cancello della canonica.

— Credevo che non venissero più — disse Marta aprendo. — E così, signore?

— Va un po’ meglio. Vogliamo fare ancora due passi, Edith?

Ella acconsentì. Invece di scendere direttamente al villaggio, presero la stradicciuola che gira sotto l’orto e cala di sghembo a raggiungere la strada comunale a poche centinaia di metri dalle prime case.

Steinegge raccontò la sua visita al Palazzo, dove aveva visto la contessa Fosca e Giovanna. La Contessa, prima di salutarlo, aveva esclamato: — Oh, non è qua anche

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