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— Ti dirò un segreto che riguarda anche te — diss’ella, e spense prima le due candele dello stipo, quindi le altre del piano, della libreria, tranquillamente, senza proferir parola, come se quelle fiamme fossero vive e potessero udire. Solo dalla porta aperta della camera da letto entrava un chiaror languido sul pavimento, sui mobili più vicini.

Marina prese Silla pel braccio, lo trasse nell’angolo più oscuro, presso la porta del corridoio, gli sussurrò:

— Tu non sai chi sono.

Egli non comprendeva, non rispondeva; quell’informe presentimento saliva in lui angoscioso.

— Ti ricordi quella sera in loggia, la dama che tu accusavi, per cui mi sdegnai?

Silla taceva sempre.

— Non ti ricordi? La contessa Varrega d’Ormengo?

— Sì — diss’egli ricordandosi a un tratto, aspettando ansiosamente che Marina si spiegasse. Ma ella gli posò la fronte ad una spalla e ruppe in singhiozzi dicendo due parole che Silla non intese. Piegò il viso sui capelli di lei, la pregò di ripeterle.

— Sono io — diss’ella singhiozzando ancora. E tosto un movimento involontario di Silla, una sommessa esclamazione dolorosa la scossero. Diè un passo indietro, esclamò:

— Dunque mi credi?...

— Oh no! — interruppe Silla.

La parola, non proferita, indovinata, risuonò più forte.

Marina non piangeva più. Disse piano:

— Come siete tutti bassi. Dio!

V’era stato un tempo in cui nessuno avrebbe potuto dir basso Corrado Silla; ma questo tempo non era più ed egli lo sentì acutamente.

— Tu, tu, — continuò Marina — tu mi hai scritto che questa era la tua fede, una vita precedente. Ma che fede era mai? Era una fantasia, e non una fede. Ti dico

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