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Un’altra persona era in piedi in mezzo alla camera, a pochi passi dall’uscio; Marina. Le si vedevan bene la punta lucida, vibrante d’uno stivaletto, la gonna bianca a ricami azzurri; pareva tener le braccia incrociate sul petto; del viso nulla discernevano nè la contessa Fosca, nè suo figlio, nè il Vezza che le avevan gli occhi addosso.

Don Innocenzo proferiva ad alta voce le preghiere commendationis animae con il Rituale alla mano, senza leggervi mai. Non mostrò avvedersi di Marina nè di Silla. Non dipartiva lo sguardo da quella testa con la bocca aperta e gli occhi chiusi, coperta di ghiaccio, inclinata sull’omero sinistro, cadaverica. Parlava con accento di profonda pietà: quando disse— ignorantias eius, quaesumus, ne nemmeris, Domine — le parole suonarono più alte e commosse, parvero esprimere un’appassionata fede che Dio accoglierebbe nella sua pace quello spirito il quale, dopo aver operato il bene sulla terra senza pensare a Lui, gli giungeva davanti come chi navigando diritto e fermo verso una meta conosciuta, trovò invece gran terre nuove e gloria imperitura. In quella notte d’angoscia e di trepidi bisbigli, le sonore parole sacre volte con tanta fede a un Essere affermato presente e invisibile sopra l’uomo colpito da Lui, affermato padrone di chi parlava e di tutti i circostanti credenti o no, empivano la camera di sgomento. Si sentivano due potenze sovrumane a fronte: una luminosa, eloquente, infocata di pietà, tenace, instancabile; l’altra buia, muta. E questo appariva grande, che la prima, disconosciuta dal giacente e in vita e in morte, offesane con parole d’indifferenza, fors’anche di spregio, veniva nell’ultima sua ora non richiesta da lui, non potendone più attendere nè bene nè male, a coprirlo, a difenderlo, a parlare alto per esso in un giudizio terribile. Quando il prete sostava per qualche istante s’udiva il moribondo ansar precipitosamente come se un

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