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— Chi? — rispose Steinegge distratto.
— I Salvador; alle sei. Che vuole? Appena successa la disgrazia, il conte Nepo non ha perso tempo, ha cercato e trovato il testamento ch’è olografo e ha la data di quindici giorni sono. L’ospitale di Novara è erede universale. Per i Salvador ci sarà forse questione perchè c’è ordine all’erede di vender la possessione di Lomellina, onde soddisfare entro due anni trecentoventimila lire di cui — dice il testatore — faccio donazione a mio cugino il conte Nepomuceno Salvador di Venezia. Donna Marina non ha niente. C’è poi una infinità di legati. Cesare si è ricordato di tutti, da gentiluomo, veramente. C’è anche un assegno vitalizio per Lei. Io sono esecutore testamentario. Del resto è ben naturale che i Salvador se ne vadano; non c’è neanche onore, per loro, a restar qui. Il conte avrebbe voluto fare del chiasso, che so io, battersi; ma se n’è lasciato dissuadere subito.
Catte venne a pregare il commendatore di andare ancora dalla contessa, e Steinegge rimase solo.
Non era stato mai un gran sognatore il povero Steinegge, pure qualche sogno, durante il suo mezzo secolo di vita, l’aveva fatto anche lui, di tempo in tempo; qualche piccolo sogno come la libertà della patria, la pace della famiglia. Il suo ultimo sogno, umile e timido, era stato che sua moglie sarebbe guarita e che avrebbero trovato un pane in Alsazia; soffiatogli via dalla fortuna anche questo, non aveva sognato più.
Per meglio dire, non aveva più creduto di sognare, perchè adesso, guardando il lago dalle loggie del Palazzo, e sentendosi il cuore tutto amaro, capì che un’altra speranza, natagli spontaneamente, inavvertita da lui, gli si era rotta e gli faceva male. Chi avrebbe pensato che Silla potesse dissimulare a quel modo? Deliberò di aspettarlo.
Nessuna voce veniva più dalla camera di Marina; tutta quell’ala del Palazzo era muta. Dall’altra parte si udivano