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CAPITOLO V.
Inetto a vivere.
L’alba nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell’Alpe dei Fiori, circonfusi da ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigie, sonnolente nei loro umidi mantelli di boschi, le ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di piova, il lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda de’ fichi, de’ gelsi, degli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull’acqua morta; le loro immagini e quelle dei muriccioli, delle rade casupole, dei sassi cespugliosi vi tacevano ferme, intere. Ma da ponente la piova veniva avanti come una vela obliqua dal cielo alla terra, sempre più grande. I pioppi delle praterie la sentivano vicina, ne avevano i brividi. Anche il lago cominciava laggiù a fremere, a picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti spandendosi rapidamente, si confusero in una sola striscia rugosa, in una fila di ondicine tremole che si spiegavano a ventaglio, silenziose nell’alto, bisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarie, nel lago stesso diviso più che mai dal mondo, diviso, parea per sempre, dal sole, era un arcano raccoglimento pieno di pensieri gravi, d’intimi colloqui sommessi, una quiete di chiostro in cui l’aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte passioni.
Le colline sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri i pioppi delle praterie, che uno dopo l’altro, da’ più lontani a’ più vicini, di-