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— Vi ricordate? — diss’egli.

Silla rispose stupefatto. Non ricordava il ritratto, ma sapeva benissimo d’aver spezzato il vaso di cristallo e d’essersi rifugiato, dopo il castigo, nella stanza di sua madre.

— Vedete che Vi conosco da lungo tempo. Ne dubitate? Adesso vado a dirvi quello che so di voi.

Il conte si pose a camminare su e giù parlando. Si udiva il suo vocione andare e venire per la sala piena d’ombra: si vedeva la sua figura bizzarra illuminarsi e oscurarsi a vicenda, quando passava davanti alle finestre.

— Voi siete nato nel 1834 a Milano, in via del Monte di Pietà. Vostra madre Vi diede il suo latte, Vostro padre vi diede una culla d’argento e una bambinaia brianzuola che doveva esser creduta dal mondo la Vostra balia. Questa donna è morta appena lasciato il Vostro servizio. Voi non la potevate soffrire, non è vero?

— Non lo ricordo; me l’hanno detto, però; me l’ha detto più volte mia madre.

— Sicuramente. Volete sapere qual è il Vostro ricordo più lontano? Questo. Avevate cinque anni. La sera di un giorno in cui vi era stato in casa Vostra un insolito affaccendarsi di servi, un trambusto d’operai e si eran portate montagne di dolci e di fiori, Vi posero a letto prima dell’ora solita. A tarda notte foste svegliato da un suono di musica. Poco dopo, l’uscio della camera si aperse. Vostra madre venne a chinarsi sopra di Voi, Vi baciò e pianse.

— Signor Conte! — esclamò Silla con voce soffocata — come fa Lei a sapere queste cose?

— Alcuni anni più tardi — continuò senz’altro il vocione del conte — quando Voi ne avevate tredici, nel 47 insomma, avvenne in casa Vostra qualche cosa di straordinario.

Il vocione tacque, il conte si fermò, lontano da Silla, con le spalle alla porta del giardinetto.

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